domenica 22 maggio 2016

Dopo la Cirinnà. Che fare?

Siamo arrivati dunque alle unioni civili per le persone con tendenze omosessuali. Ciò che è stato stralciato per ottenere l'approvazione ( es. l’«obbligo di fedeltà») rientrerà dalla finestra con appositi progetti di legge. Sicuramente è un passaggio epocale, destinato a segnare la storia della nostra nazione (se ancora si può chiamare così) come la legalizzazione di aborto e divorzio. Siamo dunque di fronte all'ennesimo gradino verso il baratro della nostra società? Si tratta di un punto di non ritorno, oppure esiste al possibilità di fermare questo processo, e magari addirittura di ricostruire?
Spesso mi viene posta questa domanda, nel corso di incontri e conferenze. Io rispondo con una metafora.
Quando viene l'autunno spiace a tutti vedere le foglie ingiallire e poi cadere. Vorremmo sempre vedere gli alberi verdi,  e invece vediamo le foglie staccarsi una dopo l'altra, ed ogni giorno vediamo l'albero diventare sempre più spoglio, misero, triste.
Cosa possiamo fare?
Possiamo prendere la scala, la colla, e riattaccare una per una le foglie. Ma saranno foglie senza vita, e la nostra fatica sarà come quella di Sisifo perché esse continueranno a staccarsi e a cadere, ormai senza vita.
Esiste una alternativa?
Esiste.
Possiamo coprire le radici in modo che non gelino, come diceva Tolkien. Guareschi diceva: «Bisogna conservare il seme». In modo che, quando (se) tornerà la primavera, l'albero spontaneamente produrrà nuove foglie, sarà di nuovo verde e pieno di vita.
E cosa sono le radici, cos'è il seme? Il seme di Guareschi è la fede, dalla quale può nascere una nuova piante. E le radici? Credo che le radici siano i fondamenti filosofici che hanno portato la civiltà occidentale al livello che conosciamo e che vediamo sgretolarsi giorno dopo giorno.
Queste radici, non ho dubbi, sono il pensiero di Aristotele e san Tommaso d'Aquino.
Io stesso mi sono stupito di quanto sia facile comprendere e smontare l'ideologia di genere con pochi e semplici strumenti messi a nostra disposizione dal pensiero di questi due giganti.
In fondo, stiamo vivendo l'esito di un processo (iniziato cinquecento anni fa) volto a distruggere la metafisica, ossia l'idea che la realtà non sia solo quella che vediamo e tocchiamo. Questa è un'idea che l'uomo ha dimostrato di avere sin dai primordi: i primi manufatti hanno non hanno uno scopo funzionale, ma metafisico, se non spirituale. Il pensiero metafisico è ben radicato in noi, anche se non ce ne rendiamo conto. Ma la cultura nella quale siamo immersi fa di tutto per convincerci che le leggi morali e religiose siano «mere costruzioni sociali», che l'uomo non abbia una «natura» (un progetto) e che non esista alcuna finalità nelle cose.
La legge Cirinnà è stata approvata proprio grazie alla diffusione di questo pensiero: il fondamento dell'unione non ha nulla di metafisico, ma si basa sull'«amore», che è semplicemente un istinto, un sentimento o una passione radicata nella nostra biologia, una questione di «chimica». Anche chi si è opposto alla Cirinnà, avendo perso l'orizzonte metafisico, si è aggrappato a ciò che è visibile, misurabile, utilizzando ad esempio ricerche sull'effetto della crescita dei bambini in coppie omogenitoriali. L'efficacia di questi strumenti l'abbiamo valutata sul campo. C'è anche chi ha tentato di appellarsi al concetto di «natura», purtroppo senza spiegarlo né, forse, averlo compreso.
Credo che l'unico modo per opporsi a questa deriva consista nella riscoperta e nello studio della metafisica: le cose hanno un fine, esiste un bene o un male intrinseco ed oggettivo (al di là delle conseguenze), il mondo ha un ordine, una razionalità che va scoperta, rispettata e contemplata.
Mi piacerebbe che le parrocchie, i movimenti ecclesiali e tutti coloro che hanno a cuore la nostra civiltà si impegnino per conservarne le radici, cioè il pensiero aristotelico-tomista. Vorrei opuscoli e libri divulgativi adatti a tutte le età, corsi di tomismo per tutti, che san Tommaso diventasse il fulcro della formazione intellettuale del nostro paese e di tutto l'occidente.
Sono in buona compagnia.
Guardando indietro nella storia della Chiesa vediamo che i papi hanno sempre raccomandato il pensiero di san Tommaso per fronteggiare i fenomeni rivoluzionari del proprio tempo.
Leone XIII, ad esempio, che si trovò a fronteggiare la questione operaia e la diffusione del socialismo, nel 1879 (centenario della Rivoluzione Francese) pubblicò l'enciclica Aeterni Patris nella quale raccomandava lo studio di san Tommaso. Lo stesso papa Pecci ordinò una riedizione critica delle opere dell'aquinate, che fu poi chiamata Leonina.
San Pio X, impegnato a combattere il socialismo e il liberalismo, la massoneria e il modernismo, fece pubblicare le celebri «24 tesi tomiste», desiderando che fossero una guida per la formazione cattolica.
Benedetto XV, pubblicando il Codice di Diritto Canonico del 1917, volle che il tomismo fosse la guida per l'insegnamento della teologia.
Pio XI scrisse, nell'enciclica Deus Scientiarum Dominus (1931): «Nella facoltà teologica il posto d'onore sia riservato alla sacra teologia. Inoltre, questa disciplina deve essere insegnata sia con il metodo positivo sia con quello speculativo; perciò, una volta esposte le verità della fede, e una volta dimostrate a partire dalla Sacra Scrittura e dalla Tradizione, se ne ricerchi e se ne spieghi l'intima natura razionale secondo i principi e la dottrina di san Tommaso d'Aquino».
Infine Pio XII, opponendosi con l'enciclica Humani Generis (1950) all'ateismo, all'esistenzialismo, all'evoluzionismo e al materialismo, insegnò che «come ben sappiamo dall'esperienza di parecchi secoli, il metodo dell'Aquinate si distingue per singolare superiorità tanto nell'ammaestrare gli alunni quanto nella ricerca della verità; la sua dottrina poi è in armonia con la rivelazione divina ed è molto efficace per mettere al sicuro i fondamenti della fede come pure per cogliere con utilità e sicurezza i frutti di un sano progresso».
Insomma, nei momenti di pericolo i pontefici hanno sempre indicato la filosofia perenne di san Tommaso come lo strumento per opporsi al male.
Che avessero ragione?


Roberto Marchesini, psicologo e psicoterapeuta

giovedì 19 maggio 2016

Le Unioni civili stringono all’angolo la libertà religiosa

L’approvazione del disegno di legge Cirinnà sul riconoscimento delle convivenze di fatto e delle unioni civili tra persone dello stesso sesso avrà delle conseguenze negative di rifiuto della libertà di religione e di oppressione per la vita della religione cattolica in particolare. Quando l’autorità politica disciplina una qualche realtà di fatto le conferisce un riconoscimento non solo giuridico ma anche politico. Col riconoscimento giuridico, l’autorità politica dichiara che quella situazione di fatto è buona, apprezzabile ed utile per il bene comune e per questo esprime una serie di diritti delle persone coinvolte che lo Stato deve proteggere e promuovere. Nel caso delle unioni tra persone dello stesso sesso, il riconoscimento giuridico implicitamente afferma che esse sono utili per il bene comune e, quindi, che lo Stato d’ora in avanti proteggerà e promuoverà i diritti personali che ne nascono. Non si tratta di situazioni eccezionali tollerate per motivi particolari. Questo è il passaggio che stanno avendo tutte le questioni cosiddette “etiche”, come per esempio l’aborto o, appunto, le unioni tra omosessuali: dallo stato di eccezione alla normalità di diritto.
E’ evidente, per questo motivo, che lo Stato, una volta approvata la legge, dovrà pretendere in tutti i campi l’equiparazione tra unione civile e matrimonio. Non potrà tollerare, almeno di diritto se non di fatto, zone extraterritoriali in cui tale equiparazione non venga rispettata e le coppie unite da matrimonio omosessuale vangano discriminate. Proprio questo collide con il principio della libertà di religione soprattutto nel campo dell’educazione, in quello della solidarietà e, infine, in quello strettamente ecclesiastico.
Nelle scuole pubbliche statali diventerà obbligatorio educare ad una sessualità non solo eterosessuale ma anche omosessuale. La Cirinnà non ne parla direttamente, ma è facile capire che, senza aspettare l’eventuale approvazione del ddl Fedeli che riguarda l’insegnamento gender nelle scuole statali, già essa pone le basi per questo obbligo. Obbligo da estendersi a tutto il sistema scolastico pubblico, comprese le scuole paritarie cattoliche o di altro orientamento filosofico o religioso. Le maglie si stringeranno e le scuole paritarie cattoliche non potranno opporsi all’obbligo di insegnare pariteticamente i vari modelli di sessualità, di famiglia e di genitorialità che lo Stato ha riconosciuto come legali e quindi come portatori di benefici per il bene comune. Le scuole paritarie cattoliche non riflettono a fondo su questo imminente pericolo. Lo fanno però alcuni genitori che si stanno già attrezzando in scuole parentali. Sappiano però che anche questa via, che la legislazione odierna permette, potrebbe domani essere sbarrata. Di recente il ministro della pubblica istruzione del Belgio ha detto che intende impedire che i genitori possano sottrarre i figli alla scuola statale per motivi confessionali. Come oggi lo Stato impedisce ai genitori di esonerare i figli dai corsi sulla sessualità e contro il bullismo omofobico appaltati alle associazioni LGBT, domani potrebbe impedire loro di istruire i figli a casa.
Uguale discorso va fatto per le molteplici realtà religiose nel campo della carità sociale. Come un consultorio cattolico fatica a non emettere la certificazione che fa transitare le donne verso l’aborto legale pena il taglio dei finanziamenti, così diventerà presto impossibile rifiutarsi di dare in affido o in adozione un bambino di strada ad una coppia omosessuale. Le Suore di Madre Teresa si rifiutano di farlo, ma su questo terreno la strada sarà per tutti in salita. Il braccio di ferro tra la Chiesa americana e la riforma sanitaria del presidente Obama insegna.
In un ambito più strettamente ecclesiastico, è altrettanto chiaro che affermare in pubblico da parte di un sacerdote o di un uomo di Chiesa un insegnamento religioso o morale lesivo dell’uguaglianza tra unione civile omosessuale e matrimonio naturale diventerà ben presto reato. Per l’Italia non sarà necessario aspettare l’approvazione del ddl Scalfarotto. Già la Cirinnà pone le basi per tutto questo. In Francia, se un sacerdote dall’ambone critica una legge dello Stato rischia da 3 a 6 mesi di reclusione. Non credo sia per questo che in Italia non si sente più nessun sacerdote che in un’omelia parli di aborto o di omosessualità, però il problema esiste ed è senz’altro lesivo della libertà di religione. Abbiamo già avuto il caso di qualche vescovo costretto ad asseragliarsi in episcopio per aver detto che l’omosessualità è un disordine, in futuro vescovi di questo tipo, se ce ne saranno ancora, potrebbero subire pressioni più gravi.
Del resto, la legge Cirinnà non parla in nessun caso di diritto all’obiezione di coscienza per motivi morali o religiosi. Un insegnante di scuola cattolica o un catechista di parrocchia non potrà fare obiezione di coscienza davanti all’imposizione di parlare in un certo modo dell’omosessualità. E, se non farà, come è probabile che avvenga in ampia misura, una preventiva censura condiscendevole verso i nuovi orientamenti, incontrerà seri guai. Come oggi viene licenziata una farmacista di una farmacia comunale che si rifiuti di vendere la pillola del giorno dopo perché potenzialmente abortiva, così in futuro un insegnante o un catechista subiranno pressioni ed angherie per aver continuato ad insegnare quanto è diventato proibito. La Chiesa diventerà Chiesa del silenzio oppure, se vorrà convivere senza essere perseguitata, dovrà non entrare più in nessuno di questi argomenti.
L’attacco è alla libertà di religione in generale, però sarà soprattutto la Chiesa cattolica a pagare. Le comunità luterane e protestanti non subiranno particolari angherie dal nuovo sistema di dominio in quanto su questi temi non hanno una dottrina né un’autorità religiosa che la faccia valere.  Le varie correnti protestanti – pur con le dovute eccezioni – si integrano abbastanza facilmente in quanto il mondo desidera da loro. Molte di esse hanno già accettato il “matrimonio” tra persone dello stesso sesso. Le comunità islamiche, che sono contrarie a queste leggi, vengono comunque tollerate dai poteri politici che tendono a non infastidirle, avendone anche paura. Alla fine non rimangono che i cattolici, non tutti dato che la secolarizzazione ha influenzato molto anche la Chiesa cattolica, come dimostrato dalle recenti inopinate aperture anche di personalità ecclesiastiche all’approvazione della legge Cirinnà e quindi al riconoscimento delle unioni civili tra persone omosessuali.
Il futuro sarà duro per la libertà di religione e specialmente per la libertà religiosa dei cattolici che vogliano rimanere fedeli alla propria dottrina e tradizione. Ad essi verrà progressivamente impedito di stabilire un nesso vitale tra la propria religione e la costruzione della comunità politica e saranno spinti sempre di più verso una religione privata, dato che per Dio non c’è più nessuno spazio pubblico. Se la fede non si congiunge con la ragione almeno sui temi del matrimonio, della famiglia e della procreazione, tutti frutti della creazione, essa perde qualsiasi pretesa e possibilità di esprimersi in pubblico.

Stefano Fontana - Direttore dell'Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina sociale della Chiesa

mercoledì 18 maggio 2016

L’omosessualità è diventata un bene giuridico

Approvata la legge sulle Unioni civili, l’omosessualità è diventata un bene giuridico. Il primo effetto, da cui promanano tutti gli altri, è proprio questo: l’omosessualità e le condotte che la esprimono non sono più rispettivamente una condizione e comportamenti privati scevri di rilievo e interesse pubblico, ma la prima diventa uno status giuridico e le seconde veri e propri diritti. Sia tale status che i diritti sono dunque da oggi meritevoli di riconoscimento e tutela da parte dello Stato. Quest’ultimo, anche nella prospettiva liberista che lo permea, considerava sino a ieri l’omosessualità come fenomeno sociale indifferente al bene comune. Ma proprio a motivo di questa prospettiva libertaria il nostro ordinamento giuridico si è trovato costretto ad elevare a diritto il mero “affetto” (così come la legge 40 eleva a diritto il mero desiderio del figlio), privo di suo di ricadute positive per la collettività ed anzi – come ricorda la famosa Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede del 2003 – foriero di danni per il bene comune.
La Cirinnà dunque prima di legittimare il “matrimonio” omosessuale, ha legittimato l’omosessualità, condizione che nella prospettiva giusnaturalista potrebbe essere tuttalpiù tollerata e non certo elevata a status giuridico. Se la stessa omosessualità non fosse riconosciuta come bene giuridico non si potrebbe logicamente nemmeno legittimare il “matrimonio” tra persone dello stesso sesso. Tale legittimazione, che ha fatto uscire la condizione omosessuale dal cono d’ombra dell’insignificanza giuridica, porta con sé alcune conseguenze giuridiche rilevanti che vanno ben oltre l’ambito di applicazione della stessa Cirinnà.
La prima: l’omosessualità è un bene giuridico proprio della persona e dunque assimilabile a condizioni quali l’etnia, la razza, l’appartenenza religiosa, il sesso di appartenenza che sono tutti status naturali del soggetto perché aspetti identitari dell’uomo. L’omosessualità diventa variabile identitaria qualificata dell’ordinamento, condizione naturale e categoria antropologica fondamentale che lo Stato, seppur in ritardo, ha riconosciuto e che forse dovrà trovare una propria collocazione addirittura in seno alla Costituzione, accanto agli articoli che tutelano la famiglia, la libertà religiosa, l’etnia, etc. Ne discende l’obbligo in capo alle istituzioni di attivarsi per approntare tutti quegli strumenti di garanzia indispensabili affinchè il cittadino possa pienamente vivere la propria omosessualità.
Ecco allora concretarsi due ipotesi. O si tirerà fuori dal cassetto il Ddl Scalfarotto sulla cosiddetta omofobia - che appunto sanzionava atti di discriminazione “omofobi” al pari di quelli commessi per motivi di ordine razziale, religioso, etc. – oppure, ma molto più in subordine, non servirà nemmeno una legge Scalfarotto dal momento che qualsiasi giudice potrà ricavare dalla legge sulle Unioni civili il diritto della persona omosessuale di vedersi tutelato il suo particolare status giuridico.
Una seconda conseguenza sarà il varo di leggi ad hoc che assegneranno rilevanza giuridica alle peculiarità dell’omosessualità in alcuni ambiti sociali. Come oggi abbiamo ad esempio leggi che tutelano la maternità e la paternità in ambito lavorativo, o norme sulla disabilità, o una disciplina giuridica sulla libertà di culto, così domani avremo leggi che privilegiano la condizione omosessuale nelle professioni, che incentivano massmediaticamente la promozione dell’omosessualità, che prevedono quote arcobaleno in Parlamento e così via.
Una terza ricaduta della legge Cirinnà riguarderà l’educazione nelle scuole, ambito già ampiamente interessato dall’ideologia gender. La nuova antropologia giuridica soggiacente alla Cirinnà afferma che è un bene per la società anche l’orientamento omosessuale e il gender. Un dato rivoluzionario che non potrà non entrare ora nei piani formativi  di ogni scuola di qualsiasi grado con un peso assai maggiore rispetto al passato. Ai bambini verrà insegnato che persone dello stesso sesso hanno diritto a “sposarsi” tra loro ed ad avere figli, che l’identità di genere – la percezione di sé come appartenente al mondo maschile e femminile – può lecitamente svincolarsi dall’identità sessuale – l’appartenenza al sesso genetico – che la scelta del proprio orientamento sessuale e del proprio sesso psicologico è espressione di una libertà presidiata dalle leggi, che il riconoscimento dell’omosessualità e del gender come diritti civili è stato storicamente l’esito felice di una lotta di una minoranza contro il conservatorismo dominante per l’affermazione di una propria identità specifica, così come avvenuto nel passato per i poveri, i neri e le donne (si entrerà in una narrativa epica).
Quarta conseguenza: se omosessualità e gender sono stati civili giuridicamente tutelati e quindi beni che si inseriscono legittimamente nel corpus di principi chiamato “ordine pubblico”, la dottrina della Chiesa entrerà in rotta di collisione con tale ordine pubblico. Il Magistero e tutti coloro che lo rispettano diventeranno nemici potenziali non solo della singola persona omosessuale in quanto omosessuale – ben prima perciò che ci sia una concreta e attuale condotta discriminatoria – ma anche dello Stato italiano proprio perché il portato culturale e dottrinale cattolico va a minare alla base quel plesso di principi su cui si fonda la convivenza civile, al cui interno – come appuntavamo – ora bisogna annoverare anche l’omosessualità e il gender. Il cattolico potrà sempre più essere percepito come cittadino infedele, come nemico pubblico.
In sintesi: andare a legittimare il “matrimonio” omosessuale di necessità significa a monte, seppur implicitamente, considerare l’omosessualità come bene giuridico, la persona omosessuale come nuova categoria giuridica e le condotte omosessuali come diritti soggettivi. Legittimare gli effetti comporta legittimare le cause.

Tommaso Scandroglio, docente di Etica e bioetica, Università Europea di Roma

domenica 15 maggio 2016

Il matrimonio non è un affare soltanto privato

La legge è “un ordinamento della ragione in vista del bene comune, promulgata da colui che ha cura della comunità” (STh I-II, 90,4). È con questa definizione che S. Tommaso d’Aquino riassume la tradizione che lo precede. La legge è qualcosa che appartiene alla ragione. È compito della ragione fare ordine, ordinare le cose in una disposizione armonica. Un ordine è tale in quanto è disposizione verso un fine. Il fine della legge è il bene comune. In quanto è compito della legge disporre per il bene comune, soltanto delle realtà di rilevanza pubblica possono diventare oggetto di una legislazione umana. Per questa ragione, l’amicizia, essendo cosa privata, non cade nella sfera giuridica (cfr. F. D’Agostino, Una filosofia della famiglia, 147). Il legislatore umano però si interessa giustamente nel matrimonio come unione stabile tra un uomo e una donna in quanto istituzione di alta rilevanza pubblica. Tale rilevanza deriva dal fatto che un’unione siffatta è idonea a trasmettere sia la vita, sia la cultura ai nuovi membri della società. Come diceva Cicerone: la famiglia (basata come era per lui sul matrimonio) è il seminario della repubblica (De Officiis I, 17). Nella famiglia viene trasmessa la vita biologica, sì, ma anche quella sociale: il linguaggio, i costumi, le tradizioni. 
Essendo intrinsecamente sterili, le unioni di persone dello stesso sesso non hanno rilevanza pubblica, e non sono quindi in grado di porsi al servizio del bene comune. Si tratta di unioni private, basate non su una comune missione, ma sull'affetto reciproco. Se adesso il legislatore ne dà un riconoscimento pubblico, conferendo a tali unioni uno status giuridico, allora si mette a legiferare nella sfera privata degli affetti che non hanno alcun riferimento al bene comune. Perciò non può risultarne una legge in senso stretto, dato che la legge è per definizione orientata al bene comune. 
Ma in tal caso il legislatore non solo promulga una legge senza ragione di legge, ma commette anche un’ingiustizia effettiva. Talvolta si sente l’obiezione: “Il mio matrimonio (gay) non nuoce al tuo matrimonio (tra uomo e donna)”. Ma nuoce comunque a un istituto giuridico al servizio del bene comune l’essere messo sullo stesso livello di un’unione strettamente privata. Chiamando le unioni di persone dello stesso sesso con il nome “matrimonio”, oppure dando loro altre forme analoghe di riconoscimento pubblico, il legislatore dichiara implicitamente che il matrimonio è un affare privato. Sta qui l’ingiustizia di una tale legislazione. Pretendendo una rilevanza pubblica per le cose private, si rendono private le cose di rilevanza pubblica. Chi pertanto si oppone a una tale legislazione si oppone alla privatizzazione del matrimonio, ribadendo la rilevanza pubblica del matrimonio al servizio del bene comune. Le unioni tra persone dello stesso sesso, non avendo una tale rilevanza pubblica e perciò essendo cosa molto diversa dal matrimonio, non devono essere chiamate con lo stesso nome né ricevere uno status giuridico analogo. Altrimenti si tratta di un caso eclatante di discriminazione contro le persone sposate, in quanto si dà discriminazione non soltanto quando si trattano in modo differente le realtà eguali, ma anche quando si trattano in modo eguale le realtà differenti. 
La legislazione che conferisce alle unioni tra persone dello stesso sesso uno status giuridico eguale o analogo al matrimonio è estremamente preoccupante anche per un’altra ragione. Come abbiamo notato sopra, una tale legislazione si insinua nella sfera privata degli affetti senza riferimento al bene comune. Se il bene comune non serve più come fondamento della legislazione, occorre un sostituto. Il posto che il bene comune occupa nella definizione della legge proposta da S. Tommaso viene ora occupato dai desideri. Ebbene, se i diritti si fondano sui desideri, lo Stato si arroga un potere arbitrario e inappellabile. I desideri non richiedono un riconoscimento: a essi si risponde o non si risponde. Un diritto basato sul desiderio non è riconosciuto, bensì concesso. Ma un legislatore creatore dei diritti può anche toglierli. In quanto contano i desideri e non le ragioni, non è possibile ragionare contro uno Stato siffatto. Non vi è istanza comune (ad esempio, la realtà del bene comune) alla quale fare appello. C’è solo il legislatore che concede i diritti graziosamente quando gli piace e li toglie spudoratamente quando gli piace.

Stephan Kampowski, professore ordinario di Antropologia Filosofica presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia

giovedì 12 maggio 2016

Cirinnà, un’unione poco civile

La legge Cirinnà-Renzi-Alfano indica quali siano i requisiti minimi per la formazione di un’unione civile: “due persone maggiorenni dello stesso sesso costituiscono un'unione civile”. Siamo di fronte ad una rivoluzione sociale, antropologica e giuridica: la parificazione del matrimonio uomo-donna a unioni civili tra due persone dello stesso sesso, senza che siano neppure richiesti l’omosessualità o l’esistenza di legami affettivi (che, ovviamente, nessuno potrebbe accertare come realmente sussistenti).
Gli unici requisiti previsti sarebbero il medesimo sesso e la presenza di due persone soltanto: queste potrebbero ottenere tutti i benefici del matrimonio - in particolar modo quelli alla pensione di reversibilità o al subentro nel contratto di locazione, nel caso di decesso di uno dei due, o la partecipazione all'assegnazione delle case popolari - semplicemente dichiarando di voler formare un’unione.
E’ evidente che qualunque coppia dello stesso sesso (due preti, due studenti universitari fuori sede, due semplici amici), tranne le persone escluse anche dal matrimonio (ossia i parenti tra loro), potrebbe dichiarare di voler formare un’unione e ottenere tutti i benefici del matrimonio.
Ma sorge spontaneo chiedersi: perché solo due e non di più? Perché zii e nipoti dello stesso sesso, che magari cercano di sopravvivere aiutandosi a vicenda, non possono ottenere gli stessi benefici?
L’attuale divieto di nozze per zii e nipoti di sesso opposto è facilmente intuibile: essendo il matrimonio finalizzato alla procreazione, il veto mira ad evitare l’incesto e tutto quel che ne consegue.
Ma poiché le unioni civili di due persone dello stesso sesso non sono e non possono essere finalizzate alla procreazione (poiché per loro natura non possono generare figli senza ricorrere a terze persone di sesso opposto) perché discriminare ingiustamente i parenti o le unioni poliamorose?

In realtà, le vere domande sono a monte: perché due persone dello stesso sesso che si amano non possono sposarsi? Perché la Costituzione tutela la famiglia fondata sul matrimonio uomo-donna e non altre unioni?
Art. 29: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Vi è una chiara correlazione tra famiglia e matrimonio, laddove la prima è identificata nella “società naturale” esistente sin dalla preistoria, composta da un uomo e una donna che, insieme, possono generare figli. Non si riconosce e tutela qualsiasi tipo di unione ma solo la famiglia fondata sul matrimonio uomo-donna per la sua caratteristica peculiare di poter generare i figli, perché questi sono fondamentali non solo per la coppia ma per tutta la collettività. Essi, infatti, assicurano il ricambio generazionale. Immaginiamo una società senza bambini: quante insegnanti, pediatri, educatori, assistenti sociali, editori etc. etc. sarebbero senza lavoro! Il matrimonio uomo-donna è promosso e tutelato perché non si riduce ad una questione privata tra due persone ma coinvolge altri: i figli e la collettività intera.
La Costituzione, quindi, non tutela affatto gli eterosessuali in quanto tali: il legislatore fotografa una situazione, la famiglia composta da un uomo e una donna capaci, insieme, di generare figli, e la ritiene preziosa per la collettività proprio per la sua capacità intrinseca a procreare e ad assicurare il ricambio generazionale.
Che sia la funzione procreativa il motivo per cui viene tutelato in modo speciale l’unione uomo-donna lo si ricava dal termine stesso “matrimonio” che ha la sua radice nell’unione dei termini mater, madre (colei che genera) e munus (“dovere”, “funzione”, letteralmente “dovere di essere madre”) e da altre norme costituzionali: l’art. 31 agevola le famiglie con tanti figli e, soprattutto, “protegge la maternità”.
Nella Costituzione, quindi, è riconosciuta espressamente la particolare importanza del ruolo della mamma: non si tutela la donna in sé ma “la maternità”, ossia la funzione generatrice e allevatrice di figli: è, quindi, la maternità il vero bene per l’intera collettività, che non si limita al fatto di mettere al mondo i figli ma comprende anche il loro accudimento.
Altre norme ancora (artt. 30 e 36) confermano l’indissolubile rapporto tra genitori – cioè che generano – e figli ed il fatto che è la famiglia – e non i suoi singoli componenti – a trovare un suo riconoscimento specifico.
La famiglia fondata sul matrimonio, quindi, è un soggetto diverso dalla mera unione di due eterosessuali.
E’ un qualcosa di più che la Costituzione tutela in modo speciale perché coinvolge tutti.
Non vi è, quindi, alcuna discriminazione ingiusta nel trattare in modo diverso le unioni di persone di sesso diverso, rispetto a quelle dello stesso sesso: si tratta di situazioni completamente differenti. Al contrario, trattarle in modo simile significherebbe discriminare in modo ingiusto le prime a vantaggio delle seconde.

Non è poi vero che il riconoscimento delle unioni civili non toglierebbe nulla alle famiglie naturali: il testo di legge fa capire bene che, quando si riconosce un diritto a qualcuno, automaticamente si fa sorgere un dovere in capo ad un altro. In esso, infatti, si stabiliscono i costi che tutti i cittadini dovrebbero accollarsi per le pensioni di reversibilità ai superstiti delle unioni: dai 3,7 milioni per l’anno corrente, sino ai 16 milioni per il 2025, espressamente sottratti al fondo previsto per lo sviluppo del Paese, con sacrificio, quindi, della crescita dell’Italia e dell’occupazione dei giovani. E’ questo che la maggioranza degli italiani vuole?

Infine, nella legge sulle unioni civili la stepchild adoption è stata superata dal rinvio alla disciplina sull'adozione: è vero che la legge sulle adozioni non permetterebbe ad una coppia omo di adottare, ma la recente giurisprudenza, più volte, ha già permesso ai conviventi gay di adottare. Ergo il coniuge omo potrà adottare non solo il figlio del compagno ma qualsiasi altro minore.
Del resto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha già chiarito che gli Stati sono sì liberi di decidere se introdurre, o meno, discipline che riconoscano le unioni omosessuali ma, ove lo facessero, esse dovrebbero essere in tutto e per tutto identiche al matrimonio eterosessuale, adozioni comprese. Ma è questo che gli italiani vogliono davvero?

Paolo Panucci, Avvocato, Consigliere Unione Giuristi Cattolici Italiani

Comunicato Stampa - "Sì alla famiglia - NO alle unioni civili"

Quando è in pericolo la vita, la famiglia, la libertà, l’educazione, la religione, il bene comune la piattaforma A reti unificate (http://www.retiunificate.it/) chiama a raccolta chi tra i media vuole intervenire nel dibattito per incoraggiare, spronare, denunciare, avvertire e far riflettere i lettori al fine di innescare nell'opinione pubblica una sana reazione a catena. È una piattaforma che rappresenta una aggregazione libera di testate e siti che contano così di dare più forza e incisività alle proprie ragioni.
La prima uscita di A reti unificate mette sotto la lente di ingrandimento il disegno di legge sulle unioni civili. 

da domani pubblicheranno in contemporanea contributi e riflessioni di diversi autori per evidenziare contraddizioni ed aspetti iniqui di una legge che mina alla radice l’istituto del matrimonio e non farà il bene dei bambini. Queste il calendario degli articoli:

  • Venerdì 13 maggio: Paolo Panucci, Avvocato, Consigliere Unione Giuristi Cattolici Italiani.
    Cirinnà, un’unione poco civile
  • Lunedì 16 maggio: Stephan Kampowski, Professore ordinario di Antropologia Filosofica presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia.
    Il matrimonio: un affare soltanto privato?
  • Mercoledì 18 maggio: Tommaso Scandroglio, Docente di Etica e bioetica presso l’Università Europea di Roma.
    Da oggi l’omosessualità è un bene giuridico
  • Venerdì 20 maggio: Stefano Fontana, Direttore dell'Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina sociale della Chiesa.
    Le Unioni civili stringono all’angolo la libertà religiosa
  • Lunedì 23 maggio: Roberto Marchesini, psicologo e psicoterapeuta.
    Dopo la Cirinnà. Che fare?